La fine del "Nè, nè, nè"

Antonio Santangelo • apr 19, 2022

Antonio Santangelo

Le vicende drammatiche di questi ultimi due mesi, l’aggressione russa all’Ucraina e il ravvivarsi dei venti di guerra che credevamo sopiti, impongono una riflessione sulle cause e sui limiti che contraddistinguono le nostre scelte.

I tre anni che abbiamo alle spalle hanno scosso molte certezze maturate dall’inizio del nuovo millennio.
Si comincia a discutere della fine della globalizzazione, o perlomeno di una riconfigurazione degli assetti mondiali usciti dall’inizio degli anni ’90.
La geopolitica entra sempre di più nelle riflessioni sui destini dell’economia.


In effetti, due anni e più di pandemia avevano già evidenziato la necessità di alcune revisioni. L’esternalizzazione di alcune filiere, produzioni sanitarie e farmaceutiche, catene logistiche e energetiche, si sono dimostrate troppo azzardate e a rischio in casi di eventi emergenziali. C’è stato perciò un ripensamento e si è cominciato a parlare di accorciamento delle catene del valore, avvalorato da una crisi logistica alimentata da cause diverse, e di rimpatrio o reshoring di alcune produzioni. La presa d’atto dell’improrogabilità dell’intervento sulla transizione energetica (COP 26) ha aggiunto urgenze alla necessità di cambiamento.


Paradossalmente è stata la fuoruscita dalla pandemia e il riattivarsi prepotente della ripartenza delle economie, a rendere ancora più complessa e fragile la situazione. L’energia, principalmente quella fossile, ha subito una crescita vorticosa dei prezzi alimentata dalla domanda di gas e petrolio, e anche da qualche scelta dei principali produttori, Russia in testa. E appunto la geopolitica, con l’invasione dell’Ucraina, sta facendo emergere l’eventualità anche di una crisi alimentare.


L’insieme di questi fattori ha fatto riapparire un nemico da tempo dimenticato, l’inflazione. Rilevante negli Usa, intorno al 7-8%, più limitato in Europa, con punte del 5-6%, generata da tre fattori:

  • energetico, il prezzo del gas cresciuto del 52%, quello del petrolio del 64% nell’ultimo trimestre;
  • alimentare, in crescita a seguire, ma soprattutto in prospettiva emergenziale per il conflitto in Ucraina, che con la Russia vale il 30% dell’export di grano e la stragrande porzione dell’olio di girasole;
  • i colli di bottiglia nell’industria manifatturiera mondiale, con difficoltà di approvvigionamento di materie prime, alluminio, nickel, terre rare, e ancora da Russia (palladio) e Ucraina (neon).

Le preoccupazioni ora si concentrano sulla sua consistenza strutturale, al di là dei picchi: a quale livello si fermerà? Ancora difficile dirlo.


Il dubbio che attanaglia tutti è che possa diventare più consistente del 2%, livello di guardia della Bce, e che questo comporti un inasprimento dei tassi, con il rallentamento o la fine del Quantitative Easing, che sinora ci ha tenuto al riparo dalla speculazione finanziaria. 

A preoccupare tutti, in Europa, anche i nostri critici “frugali”, è però che si avvitino inflazione e frenata della produzione, senza che si verifichi una crescita dei consumi, innescando i tratti caratteristici della stagflazione. Ci siamo già passati, è il caso della crisi petrolifera dei primi anni ’70: la crescita dei prezzi del petrolio, a seguito del cartello generato dall’Opec con riduzione delle forniture, innescò un calo delle produzioni e susseguente aumento del prezzo dei beni, rallentando la forte crescita dei decenni precedenti.

Il dato che preoccupa di più oggi, è l’impatto che subirebbe l’occupazione, in timida ripresa nel dopo pandemia.


L’energia dunque è il fattore critico in questo scenario. Doppiamente critico: perché è l’arma più pericolosa in mano alla Russia nella sua minaccia all’Europa, e perché la sua qualità influisce sull’asse strategico individuato dall’Europa per la sua crescita sostenibile.

L’indipendenza dal gas russo è l’obiettivo ormai definito dai Paesi europei, perseguito con forte convinzione dall’Italia, un po’ più tiepidamente dalla Germania.

Ma la scelta attuale del governo si presenta difficile, e non solo per il peso (40%) del gas russo sui nostri consumi energetici. Soprattutto mette in rilievo l’annosa sottovalutazione del Paese sul tema dell’indipendenza energetica, e una predisposizione tutta italica a non fare i conti con la realtà: siamo contrari all’utilizzo dell’energia nucleare (per timore di incidenti tipo Chernobyl), ma acquistiamo l’energia dei francesi prodotta solo qualche decina di chilometri al di là del confine; forti proteste popolari hanno portato alla quasi totale chiusura di giacimenti di gas nazionali, e ad ostacolare molti gasdotti; c’è un forte movimento a supporto delle energie rinnovabili, ma centinaia di progetti (fotovoltaico, eolico, biomasse) sono ostacolati da Regioni, sovrintendenze, persino movimenti ambientalisti, in difesa del paesaggio e della bellezza. 

Siamo stati per decenni il Paese del “Né, né, né”, ma la storia ci chiede il conto. A maggior ragione adesso, in piena transizione ecologica. 

Gli obiettivi della Commissione Europea con Fit for 55, riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030, contributo energia rinnovabile al 40% a quella data, basta auto a combustione interna nel 2035 i principali, sono molto ambiziosi. Volevano guadagnare all’Europa la leadership nella corsa alla salvaguardia del Pianeta. Sono obiettivi precisi che già prima dell’Ucraina avevano sollevato problemi, proteste, obiezioni dai settori interessati. Ora la crisi energetica crea ulteriore incertezza.

Probabilmente l’Europa dovrà riesaminare i suoi obiettivi, anche alla luce della durata e degli esiti della guerra in Ucraina, che rendono più critico e sensibile l’impatto sociale della transizione. Ma quello che nessuno dovrà fare, soprattutto noi, è perdere la rotta polare della transizione ecologica. Non c’è posto per rifiuti aprioristici; chiudiamo con il né, né, né.

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