Un mondo che cambia impone innovazione

Antonio Santangelo • ott 07, 2021

Antonio Santangelo

Un mondo che cambia impone innovazione.

C’è una asserzione forte che ci ha accompagnato soprattutto nei lunghi mesi del lockdown:  "Niente sarà più come prima".
 Ora che dobbiamo costruire il futuro, è importante definirne il senso. 

La pandemia e i suoi effetti devastanti ci hanno spinto a riflettere sulle responsabilità dell’antropocene e dei suoi modelli di sviluppo sulla vita del pianeta. Non è stata investita solo la sanità, ma l’intera struttura dello sviluppo economico, la globalizzazione dei processi, le policy pubbliche e la governance del pianeta. L’estate che si è appena conclusa ci ha mostrato gli effetti della ribellione della natura: incendi devastanti, città travolte dalle piene, ghiacciai liquefarsi letteralmente. 
A fronte di queste evidenze il mondo ha reagito: la ricerca ha prodotto in tempi impensabili sinora una serie di vaccini in grado di sconfiggere il virus. La collaborazione scientifica lo ha permesso, l’assenza di un intervento coordinato lascia però scoperto il fronte dei Paesi meno attrezzati e, a seguito delle potenziali mutazioni del virus, preoccupa chi è già quasi in sicurezza.
Ciò che sembra emergere è la necessità di accoppiare la presa d’atto della gravità della situazione e della necessità di un mutamento con la messa in atto di misure e comportamenti in grado di trasformare il presente, preparando il futuro. Ma ciò concretamente significa sconfiggere la tentazione di ritornare al quotidiano precedente, alle sicurezze delle abitudini, al conforto della routine.

Il Recovery e Resilience Plan dell’Unione Europea è stata una risposta esemplare alla gravità della situazione creata da Covid 19, e ha segnato un mutamento radicale rispetto alla policy della Stabilità sancita dai trattati. L’indebitamento comune per la ricerca dei fondi crea un precedente importante per il futuro. Le due priorità individuate per le 6 missioni: transizione ecologica e transizione digitale, hanno indicato la direzione delle trasformazioni necessarie e urgenti. Si è anche avviata una riflessione più complessiva sulla natura dell’Unione e del suo funzionamento.
Al tempo stesso la Commissione sta avviando politiche, come FIT 55, che incideranno profondamente sulla struttura delle economie europee, su produzione, servizi, istruzione e formazione, politiche pubbliche.
Ma la transizione non è un pranzo di gala, parafrasando una massima cinese tra l’obiettivo e le premesse ci sono importanti sfide da affrontare, settori interi da riprogettare, abitudini da stravolgere, culture da trasformare.
Possibile? Certo, perché l’obiettivo è la salvezza del pianeta.
Agevole? Tutt’altro. Oltre a cambiare culture e atteggiamenti, c’è un fattore incomprimibile, il tempo. 
9 anni al traguardo di Agenda 2030, 14 anni al traguardo 2035 fissato dalla UE per liberarci dei combustibili fossili, 29 anni al 2050 per evitare un Climate change devastante.
Questa è la cornice all’interno della quale occorre pensare, progettare, agire, al netto della nuova guerra fredda, dell’Afghanistan, del terrorismo, ecc. Appare evidente che occorre cambiare, radicalmente e in fretta.

Limiti dell’Italia
L’Italia ha di fronte ovviamente le medesime sfide, ma parte da una posizione peggiore, se raffrontata con i suoi partner più vicini, europei e internazionali. Il fatto è stato evidenziato dai 190 Mdi del Recovery Fund dell’Europa, riconoscimento non solo che siamo la seconda industria dell’Unione, ma anche che siamo quelli messi peggio.
E’ abbastanza universalmente riconosciuto che il Paese è fermo da almeno 25 anni, che abbiamo reagito peggio di tutti partner europei allo shock del 2010-2011, che il nostro sistema istruzione-formazione non solo non risponde agli standard europei ma non riesce a soddisfare nemmeno le esigenze del sistema economico. La pandemia ha anche messo in crisi il sistema sanitario nazionale, con alcune pericolose punte in alcune realtà (Lombardia), costringendo a precipitose misure di ripiego.
Infine, l’occasione del Recovery è stata utile a far presente al Paese la necessità di mettere finalmente mano a una serie di riforme che l’Europa ci chiedeva da almeno tre decenni, e che ora divengono la condizione per accedere ai fondi che ci sono stati concessi. E che riusciremo ad ottenere solo realizzando le promesse contenute nel PNRR, mettendole in pratica, secondo un cronoprogramma già fissato dalla Commissione: realizzazione entro il 2030, chiusura nel 2026. Una parte degli obiettivi del 2030 li dobbiamo anticipare al 2026, da 9 a 6 anni. 
Con un percorso semestrale di verifica delle modalità di realizzazione con la Commissione e il Consiglio d’Europa, e il rischio di interruzioni di parte del programma e perdita dei fondi relativi in caso si mancassero gli obiettivi intermedi.
Un dettaglio che viene poco segnalato e compreso è che, se si mancano gli obiettivi fissati, i risultati attesi dalla realizzazione, i fondi concessi come grant si trasformano in debito del Paese

Le riforme e gli impegni di investimento, Giustizia, Fisco, Lavoro, Pubblica Amministrazione le principali, ma in tutto sono 51, sono finalizzate a velocizzare i meccanismi di funzionamento della burocrazia (pubblica e privata), a rendere più concorrenziale il Paese.
Bisogna che tutto cambi, ma non per restare uguale. Ma le tentazioni di tornare al passato sono forti.

Alcuni esempi.
La Pubblica Amministrazione - lo riconosce lo stesso ministro incaricato - deve dotarsi di competenze sinora assenti: matematici, statistici, ingegneri, informatici. Per far questo si sono cambiate le regole, velocizzate le procedure, realizzata una piattaforma per raccogliere curricula da mettere a disposizione di tutti i livelli della PA. Ma se non si mette mano ai livelli salariali, a politiche che premino il merito e l’impegno e non unicamente l’anzianità di servizio, è difficile recuperare profili professionali come quelli mancanti. Quanto alla tentazione di ritorno al passato, l’indicazione del ministro per un ritorno alla presenza, imputando allo smartworking la caduta di efficienza durante la pandemia, e giustificando il ritorno negli uffici per rivitalizzare le città, è emblematica.
Le condizioni di utilizzo del lavoro agile sono legate alla presenza di reti e servizi che lo rendano semplice, a tecniche di management basate sul coaching e non sul controllo, a organizzazioni del lavoro basate sulla collaborazione e non sui silos. Anche questi aspetti sono essenziali per l’adesione di competenze mancanti e si adattano alla sensibilità dei giovani

Se si guarda ai settori produttivi, sorprende la resilienza e capacità di ripresa della manifattura italiana, del Made in Italy e delle imprese di qualsiasi dimensione, anche le piccole. A contare è la qualità dell’offerta, l’attenzione ai clienti, e l’adattamento alla nuova situazione. Indubbiamente sul piano della digitalizzazione delle procedure e dei servizi c’è molto lavoro da fare, ma il lockdown è stato importante per spingere le imprese, Industria 4.0 sta dimostrando di essere una misura utile. Le imprese che stanno reagendo meglio sono quelle esposte alla concorrenza, sia interna che internazionale. 
Non pare utile invece, la richiesta di tutelare a tutti i costi le imprese e i posti si lavoro a prescindere da un’analisi sul loro stato di salute, sulla capacità di stare sul mercato e sulle prospettive del settore in cui operano. La tutela tout court dei posti di lavoro è inefficace e doppiamente dannosa: è una dispersione di fondi limitati, e si sottraggono risorse per interventi in mercati in espansione o per riqualificare le offerte in difficoltà.

Questo ci porta a individuare un altro grave limite del sistema nazionale, la carenza di politiche attive sul mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza non è, come è stato affermato, grave perché impigrisce i giovani e li induce a rifiutare il lavoro; è inefficace perché confonde due piani diversi, la lotta alla povertà (veri poveri, indigenti, disabili) con la necessità di policy orientate alla formazione e all’inclusione per l’avviamento al lavoro.
Occorre innanzitutto sfatare l’illusione del posto di lavoro a vita (molto più diffuso tra le famiglie che tra i giovani in quanto tali): la trasformazione economica e sociale è il terremoto, non uno stagno tranquillo. Questo vuol dire prepararsi ad affrontare situazioni flessibili, che possono cambiare più o meno rapidamente, e quindi prepararsi a vedere la formazione come un dato permanente nella propria esistenza professionale, necessaria per dotarsi della capacità di rispondere al mutamento della realtà. Il saper fare in sostituzione del titolo (di studio o qualifica organizzativa)
Ciò implica la valorizzazione di servizi a supporto delle persone, sia occupate che inoccupate, per accompagnarle nell’orientamento e nella scelta di percorsi e occasioni professionali, e all’acquisizione o rafforzamento di competenze specifiche.

La velocità della transizione rende molto complessa questa innovazione, e la gestione della transizione, tempi e modalità, sono cruciali perché possono ampliare o minimizzare i “costi sociali” connessi, di cui parla il ministro Cingolani.
Due esempi emblematici: Il comparto dell’auto, nel passaggio dal termico all’elettrico. L’orizzonte è segnato, 2035 per la fine del termico. Entro quella data, tutto il comparto deve transitare. Oltre ai produttori di auto, c’è un enorme indotto che da esso dipende, in cui produzioni, servizi, competenze, sono destinati a sparire. In questo iato investimenti in insediamenti produttivi e formazione sono cruciali per definire l’esito dell’operazione, che può lasciare morti e feriti sul campo, o minimizzare gli esiti negativi.
Chi ha vissuto la rivoluzione informatica degli anni ’80 conosce le previsioni di disastro in termini di scomparsa di posti di lavoro, di fine di interi settori produttivi, pericoli per la democrazia, e via enfatizzando. Bene, ci sono professioni che si sono trasformate, i posti di lavoro creati sono stati di gran lunga più numerosi di quelli persi, ma se le energie spese per contrastare l’ingresso della tecnologia nella vita quotidiana fossero state spese per preparare la società al cambiamento, per traghettare tutti nel futuro, i disagi e le perdite sarebbero state infinitamente minori.
Quindi istruzione e formazione diventano uno strumento indispensabile per adeguare il Paese e le persone alla sfida della trasformazione. In un articolo sul sole24ore il direttore generale di Federcasse, Sergio Gatti, osserva in proposito “Raggiungere gli obiettivi proposti ai cittadini europei di ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro nove anni significa attivare un ciclopico riposizionamento di attività produttive, competenze nel lavoro, modi di muoversi e viaggiare, stili di vita personali, familiari, collettivi (…). Occorrono classi dirigenti, piccoli e grandi decisori, imprenditori e manager formati o aggiornati in modo adeguato. Il traguardo della neutralità climatica per il 2050 è “rivoluzionario”: come non rivedere approcci, contenuti, programmi e metodi degli insegnamenti di master, università e scuole superiori (tutte)?”
Quindi occorre, come si sta facendo, incoraggiare le fanciulle a affrontare i corsi STEM, spingere per incrementare la formazione duale, incoraggiare imprese e università a creare ITS collegati all’ecosistema più prossimo. Ma occorre ripensare percorsi e curricula che consentano le specializzazioni, ma anche progettare curricula che permettano di acquisire competenze trasversali e la creazione di percorsi ad hoc basati sulle passioni degli individui. Questo significherebbe la fine del valore legale del titolo di studio, finalmente.

Imboccare con coraggio la strada del “nulla sarà più come prima”, significa fare dell’innovazione la stella cometa che indica il cammino. E impone l’adozione di policy pubbliche e strategie private all’altezza della sfida. Sempre sul sole24ore, Fabrizio Onida commenta il progetto di due imprese che a Scarmagno, nell’area ex-Olivetti, vogliono costruire una gigafactory da 4mila posti di lavoro per la produzione di batterie a ioni di litio (Li-ion) per veicoli elettrici. Quindi del mercato della mobilità futura. Tanto più indicativo perché insediato in un’area che ha vissuto l’era del personal computer italiano, erede del progetto innovativo degli anni ’60 a Pisa, e che da quell’esperienza ha conservato competenze, energie e strutture sociali.  
Nel caso delle Li-ion si tratta di un esempio di tecnologie abilitanti che consentirebbero all’Europa di recuperare un ritardo nei confronti dell’estero, in questo caso della Cina 66% del mercato e 20% di Giappone, Corea del Sud. L’UE ha attivato una linea di sperimentazioni per incentivare ricerca e progettazione collaborativa, gli Ipcei (Important projects of common european interest), prprio per recuperare posizioni competitive importanti. Nel dicembre 2019 la Commissione ha autorizzato un paio di Ipcei sul tema delle batterie per autoveicoli, e sono in preparazione altri Ipcei sulla microelettronica.
Questa della collaborazione pubblico-privato è, secondo Onida, la strada per liberare il Paese e l’Europa dalla minaccia di subalternità verso Cina, Usa e economie più aggressive di quella continentale. “La sfida per l’Europa – e, di riflesso, per i grandi Paesi membri come l’Italia – è quella di continuare a investire in capacità progettuale e manifatturiera per dotarsi di una maggiore “autonomia strategica”, cioè un minor fabbisogno di importazione da aree extra-europee di prodotti, servizi e componenti essenziali per la propria capacità di soddisfare con offerta competitiva la domanda domestica in materia di sicurezza, salute, ambiente, trasformazione digitale”. Vale per l’Europa, e anche per l’Italia.

Questi sono dunque solo alcuni dei problemi, su questi vale la pena di attivare riflessioni e discussioni per individuare i modi della transizione.

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